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ORBIT OF LIFE
Doppia personale

ATSUKO TANAKA - KAZUMASA MIZOKAMI

21 settembre - 19 ottobre 2019

 

ATSUKO TANAKA

Giappone, un giorno d’estate del 1968: una giovane donna disegna sulla sabbia dei cerchi di diverso diametro, collegati da una fitta rete di linee, lunghe e corte. Dall’alto, il regista Fukuzawa riprende la performance dell’artista (Round on Sand) che con il bastone di una piccozza per il ghiaccio traccia i segni personalissimi di un vocabolario interiore. Sono sull’isola dei vortici di Naruto, e la location non è casuale: il movimento del braccio racconta il cammino della materia, le circonferenze diventano vortici rappresi, turbini immobili di atomiche infinite-finite esistenze, orbite della vita. Varie sono le misure, come le esistenze: Atsuko Tanaka (1932-2005) ama una sorta di regolarità, o meglio di regola, ottenuta mediante la relazione tra diverse espressioni di irregolarità, mediante le linee che uniscono i cerchi. Il legame tra monadi è salvato, in questa mappa del vivere che accompagna quasi ossessivamente l’artista lungo tutto il suo percorso di grintosa avanguardista.
La composizione è lunga quanto la spiaggia: ottenuta mediante il procedere lungo la riva del mare, vista dall’alto, ridotta dalla distanza, rievoca la catena del DNA.
Il gesto è transitorio, ma l’immagine è destinata a sopravvivere, ripetuta infinite volte: è il complesso ed evocativo calligramma di Tanaka, erede di una lingua ideografica in cui la bellezza della scrittura prima di tutto è data dal gesto ‘in sé’, come ben sanno i maestri. L’atto effimero viene qui donato al regista, l’unico che abbia la possibilità di perpetuare la performance, il momento-movimento che contiene le tracce narrative, che nella scelta artistica da intima visione diviene patrimonio comune.
L’elaborato disegno, apparentemente improvvisato, è l’icona ripetuta con formula insistente nell’arco di una intera vita, nel solco della ‘irripetibile ripetizione’ cara alla tradizione grafica giapponese: qui, il mare cancellerà tutto, nella inesorabile legge della caducità di tutto ciò che è umano, ma il segno ‘è stato’ e mediante il film potrà essere riprodotto infinite volte. La vita e la morte sono rappresentate contemporaneamente: la fragile esistenza è destinata ad essere inghiottita dal moto delle onde, ma il disegno rappreso nei fotogrammi invoca la continuità, se non l’eternità, e vince -come ogni atto artistico- la condanna del tempo, che tutto annulla.

Quando realizza la performance sulla spiaggia, sono più di dieci anni che Tanaka va componendo il suo lessico privato, che nel tempo ha acquisito potenza di universalità. Se la ripetizione è irripetibile, è possibile però riproporre l’ideogramma attraverso una feconda produzione di variazioni sul tema, che ribadiscono e sfaccettano l’idea che in lei è la principale motivazione all’arte.
Tutto inizia nel 1956 quando Tanaka, che ha ventiquattro anni ed è già esponente di spicco dell’avanguardia del dopoguerra, realizza Electric Dress (Denki fuku, conservato all’Art Museum di Takamatsu), che indossa durante la performance. Si tratta di un’opera che si muove sul confine della scultura, della pittura, dell’happening: è un abito composto da circa duecento lampadine unite da fili elettrici, dipinte con colori primari o bianco e nero, che si accendono e spengono continuamente, creando uno spettacolo di luce in movimento. Numerosi cavi elettrici consentono la sinapsi che genera quasi ogni funzione del corpo umano, in cui il sistema nervoso costituisce l’essenziale trama sottile che realizza il miracolo della vita. L’artista è dentro l’armatura che sostiene l’intricato sistema di cablaggi, anima del miracolo e insieme spettatrice delle reazioni degli spettatori.
L’insolita scultura da indossare arriva agli occhi del pubblico come la versione insolitamente rivisitata del tradizionale kimono, e giocando in riuscito ossimoro realizza un ondeggiante ordine caotico, potentemente allusivo.
Già prima Tanaka, contaminata dall’influsso delle insegne pubblicitarie, ha utilizzato l’elettricità come soggetto/mezzo dell’opera; qui però l’energia non è più solo medium, ma acquista valore simbolico: come nel campo elettrico, i fili consentono il contatto e creano luce, vitalità, sopravvivenza felice.
Utilizzato ripetutamente da Tanaka che ormai si è imposta sulla scena internazionale, l’abito diviene icona del movimento artistico giapponese più famoso del dopoguerra, a cui dal 1954 l’artista ha aderito: se ‘Gutai’ significa ‘concretezza’, ‘incarnazione’, perché per gli artisti del gruppo il materiale prescelto, insieme allo spazio e al tempo stesso, connota intrinsecamente l’opera, la corazza di luce rappresentata da Denki fuku diviene ponte di collegamento tra l’abbigliamento tradizionale giapponese e l’urbanizzazione moderna, che dirompe velocemente nel tempo della ricostruzione.
La devastante tragedia del secondo conflitto mondiale non ha piegato il Giappone, ma lo ha sollecitato ad una eccezionale ripresa economica e sociale, in cui gli artisti – interpreti delle diverse modulazioni del cambiamento – svolgono il ruolo di corifeo. La nazione è libera e progressista, aperta alle novità internazionali, culturalmente vivace. È significativo che sia proprio Osaka, la città natale dell’artista, il luogo in cui si realizza lo sviluppo tecnologico che inaugura il cambiamento della società postbellica. Se lo scopo principale del gruppo Gutai è di rompere con il passato per creare un nuovo inizio che riscatti dagli orrori del conflitto – in analogia con quanto avviene in Italia e Germania, i Paesi alleati - , l’abito scintillante che vibra di nessi in grado di tenere vive le lampadine è una felice sintesi di questa ottimistica ripresa.
Alla fine di un’esibizione, una volta Tanaka posa su un taglio di stoffa le lampadine che, ancora calde, bruciano la tela, lasciando dietro di sé una composizione di cerchi neri – apparentemente improvvisata, minuziosamente ideata - che disegnano vagamente una figura. È una innegabile immagine di morte, di fine, è la traccia del percorso della luce, quando finisce la luce. Alla fine subentra il buio, che tutto avvolge, come il mare aveva sommerso le tracce disegnate sulla sabbia.

Il successivo lavoro di Tanaka si concentra poi per decenni sulla pittura bidimensionale, con forme astratte organiche che collegano cerchi e linee. Sono suggestive testimonianze dell’interconnettività che sostiene la fisiologia, la tecnologia, la vita culturale. Sono filamenti dell’essere, cellule che pulsano entro i limiti della tela o del foglio di carta, sillabe di materia intesa come possibilità di contatto, che salva la relazione.
Dai primi esperimenti di collage nel 1953, Tanaka considera pittura tutto il suo lavoro, indipendentemente dal mezzo: la visione bidimensionale acquista la perfetta eleganza del calligramma, pulsante però di vita e non fissamente cristallizzato nella sua forma liricamente evocativa.


Atsuko Tanaka (Osaka 1932 – Asuka 2005) studia pittura occidentale presso il Municipal Insitute of Art di Osaka e al Kyoto Municipal College. Membro del Gruppo Zero e del Movimento Gutai dal 1954, anno della fondazione, fino al 1965, è tra gli artisti giapponesi più acclamati sulla scena internazionale: lo testimonia il premio Guggenheim International Award, ricevuto già nel 1964.
Il Movimento rappresenta una vera rivoluzione dell’arte contemporanea giapponese, e arriva a volte ad anticipare analoghe esperienze europee e americane (da John Cage a Yves Klein, l’Azionismo viennese), realizzando opere d’arte uniche e irripetibili; spesso si tratta di performance o happening che avvengono in luoghi pubblici, davanti a spettatori spesso ignari. di quel che sta per accadere.
Le opere di Tanaka, presenti nei più importanti musei, da est a ovest dell’Europa, sono oggi patrimonio della cultura mondiale.

Isabella Colonna-Preti


I MIRACOLI DI KAZUMASA

Verrebbe da dire, guardando queste opere, che Kazumasa costruisca un paradiso terrestre. Ma Kazumasa è giapponese e probabilmente per lui il racconto del paradiso terrestre non significa un gran che. Forse bisognerebbe parlare della dea Amaterasu, che col suo amore crea l’universo. Ma qui siamo impreparati noi, e dobbiamo confessare che di Amaterasu non sappiamo molto.
Facciamo così: guardiamo le opere senza fare troppa filosofia. Non è difficile, perché Kazumasa con la sua scultura così piena di grazia, cioè di luce e di incanto, costruisce un giardino di sogni.
Prendiamo, ad esempio, il suo “calendario”: una dozzina di prati piccoli e sterminati in cui, centimetro dopo centimetro, zolla dopo zolla, si moltiplicano i fiori con le loro corolle profumate, strette l’una all’altra in modo da non lasciare il più piccolo spazio vuoto. E senza che ci sia un solo petalo strappato, sgualcito, appassito. Si tratta di fiori, direbbero i sapienti, attinomorfi, trimeri, tetraciclici, poliandri: diagrammi florali di ogni genere, insomma, tutti però regolari, ordinati, perfetti.
Prendiamo, per fare un altro esempio, Il sole del giorno. Le corolle si aprono come ombrellini nel portaombrelli del prato, e si moltiplicano senza sosta. Sono fiori ma, nonostante la loro adolescente castità, sono anche grembi, vulve, organi sessuali capaci di generare. Non per niente gli scienziati hanno battezzato le loro singole parti con nomi allusivi: la manciata dei pistilli l’hanno chiamata “gineceo”, quella degli stami “androceo”, il punto dove la corolla si congiunge col gambo l’hanno definita “talamo”, che in greco significa letto nuziale.
Kazumasa dunque restituisce lo spettacolo della natura in tutta la sua grazia, ma anche in tutta la sua potenziale fecondità, dando a ogni frammento un eco dell’infinito. A volte può ispirarsi a un firmamento trapunto di stelle (Notte con stella cadente, 1997); a volte può alludere a un esercito di gocce d’acqua (La pioggia, 1996); o, ancora, al moltiplicarsi dei raggi di sole (El sol, 1998); o, magari, a una famiglia di pesci che vanno a passeggio per le vie del mare (Raggio di sole sul mare, 1998). Quello che non cambia nelle sue sculture è il sentimento dell’ordine: preciso, anche quando è un ordine sparso; pacato, anche quando si applica a un proliferare di segni; ritmico, anche quando può sembrare statico; e, comunque, capace sempre di far riflettere sul significato più profondo della parola “ornamento”. “Ornare”, infatti, deriva etimologicamente da “ordinare”, e non c’è ornamento più bello che l’ordine delle parole e delle cose.
Kazumasa, allora, ordina, riordina, pettina gli elementi della natura. Elimina le ombre e le sproporzioni. Soprattutto elimina la violenza, la lotta per la vita, che nelle sue opere non compare mai. Fiori, pesci, farfalle si affollano in poco spazio, ma non si sognano di sgomitare, di spingere, di calpestarsi a vicenda.
Guardiamo Diecidiagosto. E’ il giorno in cui si vedono le stelle cadenti, ma nel rettangolo della terracotta sono fioriti tanti convolvoli rossi. Certo, qualcuno si mette in mostra più degli altri, ma c’è posto per tutti nel museo del prato. Non c’è pericolo che qualcuno schiacci il vicino, lo denigri, lo annulli, come accade invece nel doloroso mondo della vita e nel malevolo ambiente dell’arte, dove la legge dominante è una sola: mors tua vita mea. Perché io esista, mi imponga, mi affermi, tu devi scomparire, possibilmente morire. Altrimenti come faccio a essere il primo, il migliore, l’unico?
No, nell’universo di Kazumasa non c’è nessuna ambizione di primato: ci sono solo primi inter pares, come accadeva tra i re-pastori dell’antichità.
Siamo giunti allora a una prima conclusione. Il mondo di Kazumasa si ispira alla natura, ma non è naturalistico. E’ inventato. E’ un universo mentale, in cui erbe e stelle conquistano un’insolita uguaglianza (è così il socialismo reale?) e in cui c’è giustizia finalmente, come si illudeva Renzo Tramaglino.
Sarà per questo che, qui, donne, uomini, scoiattoli, lucciole, comete, farfalle, conchiglie, uccelli rossi, uova di Leda hanno l’aria di vivere felici. Sarà per questo che, qui, anche i calendari ridono.
Nei giardini di Kazumasa il gioco sembra l’attività dominante: una Ragazza gioca coi fiori, a un’altra basta una lambretta fuori moda, anzi fuori tempo. Un soffio di colore muove l’aria, e intanto uomini e cani sono amici, un asino è incoronato a festa, e quando i boccioli si risvegliano un angelo corre a salutarli.
Per costruire questo mondo incantato, dove non esiste il dolore, l’aggressività, la morte (forse solo un po’ di malinconia, ogni tanto: probabilmente rivolta a noi, che viviamo in modi e luoghi tanto diversi), Kazumasa ha trasformato la scultura in pittura. Le sue terrecotte, i suoi fogli di alluminio, i suoi bronzi dipinti hanno la leggerezza della carta. Sono come giochi di origami, senza peso, senza spessore. Quando li tocchi hai paura che si spezzino, tanto sembrano friabili, delicati, vulnerabili, anche se in realtà sono ben più forti di quanto appaiano.
Kazumasa, come tutti gli orientali, conosce la verità sapienziale di Lao-Tze: il debole vince. Non c’è forza se non nella debolezza. Un tifone potrà travolgere una portaerei, non il filo di gomma, che sopravvive anche alla tromba d’aria.
Ecco, lo sapevamo, ci siamo cascati. Abbiamo finito per parlare di Oriente: parola magica e anche piena di significati, che però, applicata genericamente come si usa fare, e come abbiamo fatto anche noi, non vuol dire più niente. Anche perché l’universo di Kazumasa si radica, è vero, in un sentimento di poeticità, di evocazione della natura, di intelligenza della leggerezza tutto orientale, ma poi dialoga con esperienze occidentalissime, da Cragg a Boetti, da De Maria a Salvo.
E non solo. Forse Kazumasa non ha mai sentito parlare di Licini. Eppure ne ha messo in pratica le parole. C’è una poesia di Licini che dice: “Un miracolo/dimmi una cosa che non sia/ un miracolo”.
Anche nella scultura di Kazumasa, o forse dovremmo dire nella sua pittura scolpita; anche nella sua arte, insomma, c’è un continuo senso di miracolo. C’è nelle margherite bianche e azzurre, che sbocciano senza sosta; c’è nei principati dei convolvoli e nelle contee delle pratoline; c’è nel formicaio delle stelle di notte, nella giovane Eva che porta una mela senza peccato, nei gusci delle uova di Pasqua, che non racchiudono la sorpresa, ma sono loro stesse la sorpresa.
Perché i miracoli della bellezza non si trovano nelle cose. Si trovano, quando si trovano, nello sguardo degli artisti.

Elena Pontiggia

 

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